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II. Le malattie più diffuse

Certamente Don Giorgio dovette confrontarsi con i problemi igienici e con le malattie più diffuse della sua epoca: molto diffusa nel 1600 era la rogna (o scabbia), e il male francese, ossia la sifilide, (chiamata in Francia mal di Napoli), che deturpava il viso e altre parti del corpo con caratteristici "ampulli grossi… comu castagni et nuchilli". Un'altra malattia a quel tempo endemica era la lebbra, causata delle tremende condizioni igieniche, essa era considerata terrificante per i risvolti sociali che comportava: per i lebbrosi era prevista l'esclusione dal consorzio civile, venivano segregati a vita in luoghi appartati (gli stessi in cui nasceranno i primi ospedali psichiatrici) e perdevano ogni diritto, ma erano mantenuti a spese della comunità; tanto che alcuni indigenti, per sopravvivere, si facevano passare per lebbrosi.

Fino alla metà del XVII secolo, Napoli e Palermo erano le città più popolate d'Europa: la prima arrivò a contare un massimo di quattrocentomila abitanti, la seconda centocinquantamila: periodicamente la popolazione veniva decimata da carestie ed epidemie. La peste infuriò a Palermo nel 1575 e poi nel 1624: il protomedico del regno, Gian Filippo Ingrassia, in tale occasione mise in atto metodi razionali di profilassi ed igiene; ma il governo si affidò anche, e soprattutto, alle ritrovate reliquie di Santa Rosalia, che con splendidi festeggiamenti, fu proclamata, nel 1626, patrona della città privilegiando, piuttosto che la razionalità, l'esaltazione religiosa e la superstizione.

Nel corso delle pestilenze, i medici giravano vestiti in modo molto originale con una maschera a forma di becco d'uccello sul naso, che conteneva una spugna con dei profumi, perché si credeva fossero gli odori a causare la malattia: non si era ancora sviluppato il concetto di contagio da organismi viventi (contagio vivo), non si capiva quindi come si trasmettessero le malattie, si riteneva che gli odori e gli unguenti portassero il contagio, ma non si comprendeva per quale ragione. Non c'era nessun concetto di igiene, tanto che persino le lenzuola dei letti dei malati venivano riciclate senza pulirle con immaginabili conseguenze soprattutto in zone molto popolate.

Le epidemie erano vissute dal popolo come castighi divini, mentre la responsabilità delle carestie era invece data ai governanti e ai notabili, eccezion fatta per la figura sacrale del Re. La grande carestia del 1647 provocò sia a Napoli che a Palermo effimere rivolte popolari (occultamente fomentate dai francesi in funzione antispagnola) che culminarono con la salita d'un popolano al governo della città, come avvenne per Masaniello a Napoli, e Giuseppe Alessi a Palermo: entrambi deposti e uccisi dopo poco tempo.

La Sicilia del 1600, in cui operò don Giorgio Gulioso, era l'avamposto europeo e cristiano contro l'Islam, al centro del Mediterraneo, al confine di due mondi ostili: il dominio spagnolo, cui pure tanti demeriti sono da ascrivere, impedì tuttavia che anche l'Italia meridionale e la Sicilia cadessero in mano ai Turchi, come era avvenuto per la Grecia, i Balcani e tutte le isole del Mediterraneo orientale.

Un sistema di torri, sulle coste siciliane, segnalava le navi sospette e mentre al di la del faro, Napoli era capitale unica e assoluta, in Sicilia invece Palermo era capitale politica, Messina principale emporio commerciale e (dal 1548) sede universitaria, e Catania era sede (dal 1438) dell'Università degli studi più antica e importante. I viceré spagnoli dei regni di Napoli e di Sicilia cercavano in ogni modo di attrarre nelle grandi capitali le grandi famiglie aristocratiche per poterle meglio controllare allontanandole dalle radici della loro potenza economica e politica, con l'aumento esagerato dei titoli nobiliari, l'assegnazione di incarichi pubblici, la sontuosità delle feste. Al seguito delle grandi famiglie si affollavano in città moltitudini di domestici, artigiani, bottegai, impiegati per ottenere un lavoro e per i privilegi accordati alle capitali dal governo spagnolo. La richiesta di lavoro superava comunque sempre l'offerta, producendo un gran numero di indigenti, inurbati dalle campagne.

Nella Palermo del XVII secolo si stava delineando l'aspetto monumentale e urbanistico che il suo centro storico conserva ancora: venne tracciata via Maqueda (1600) poi nel 1620 vennero costruiti i Quattro Canti marmorei, ovvero il "Teatro del Sole" al suo incrocio con l'antico Càssaro, mentre Porta Nuova, ampliata in quello stesso anno, venne abbellita nel 1668 con i grandi telamoni tuttora esistenti.

Erano questi gli anni dello strapotere della nobiltà cittadina e degli ordini religiosi, detentori anch'essi di grandi privilegi e immense ricchezze: la Chiesa competeva con i notabili nell'edificare e il clero esercitava il suo potere politico anche attraverso l' Inquisizione, strumento di controllo totalitario. Accanto ai grandi palazzi e le nuove chiese, nei quartieri poveri tra gli stretti e malsani vicoli, il popolo minuto, venuto dalle campagne circostanti, viveva di stenti e di espedienti, tra carestie e pestilenze. Nel 1647 avvenne una grave carestia e nel 1648 una sanguinosa guerra civile: peste, carestia e guerra furono i tre flagelli contro cui veniva richiamata la protezione della Santuzza, con il festino che ne celebrava il trionfo, glorificando al tempo stesso la città e i suoi governanti.

Nel 1641, venne appiccato a Palermo uno dei numerosi roghi dell'Inquisizione: furono arsi vivi un apostata e due eretici in un orribile autos da fè, grottesco contraltàre dei sontuosi festini.

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