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III. Gli studi di medicina e gli ospedali

Per quanto riguarda invece lo stato degli studi di medicina a Palermo, all'epoca di don Giorgio Gulioso, occorre osservare come già in epoca musulmana, normanna e sveva, avessero esercitato a Palermo valenti medici, che svolgevano funzioni di insegnamento nei confronti di allievi che venivano poi esaminati, per l'abilitazione alla professione da delegati regi ed, in seguito, dai maestri della Scuola Medica Salernitana.

Comunque il primo vero maestro di medicina, che ebbe una statura paragonabile a quella di un docente universitario, fu Giovanni Filippo Ingrassia da Regalbuto (1510-1580), chiamato a Palermo per volontà del viceré Giovanni de Vega, nel 1553. Nonostante gli allievi dell' Ingrassia non avessero altrettanta fama, comunque è certo che l'insegnamento della medicina a Palermo continuò, e che, nel 1621, venne costituita, nello Spedale Grande per opera del valente medico Baldassarre Grassia, l'Accademia di Anatomia, mentre successivamente fu fondata, nel 1645, da Paolo Pizzuto barone della Carruba e di Torre Rotonda, protomedico di Sicilia, l'Accademia dei Jatrofisici e di Medicina chiamata anche Archiliceo di Medicina dove si insegnavano Anatomia e Chirurgia, anche con dissezione su cadavere, e dove i più importanti medici della città tenevano conferenze: l'autore della prescrizione di cui ci stiamo occupando, con tutta probabilità effettuò gli studi proprio presso questa Accademia,.

Leggiamo nella nostra prescrizione, che il dottore in medicina don Giorgio Gulioso era attivo presso l'Ospedale Grande e Nuovo di Palermo. Gli Ospedali rivestivano in quel tempo una funzione di tipo assistenziale più che diagnostico-terapeutica: erano ricoveri per persone non abbienti, più che luoghi di cura. Le condizioni igieniche erano alquanto sommarie ma non mancavano mai le sacre icone in quanto gli ospedali erano considerati luoghi dove affidarsi più che alle cure, alla presenza taumaturgica del sacro.

La fondazione dell'Ospedale Grande e Nuovo viene fatta risalire alla supplica, scritta nel 1429 dal frate benedettino Giuliano Majali al Senato di Palermo. Quando fra Giuliano, " indignu monacu di lu Ordini di Santo Benedetto", giunse a Palermo esistevano già ventidue ospedali, "pichuli e malamenti sirvuti", insufficienti "pri tutti li ammalati e infermi di la dicta chitati"; sebbene, fin dalla dominazione araba, Palermo avesse sempre avuto un minimo di organizzazione sanitaria, nella gloriosa città si vedevano molti infelici "moriri pri li strati pri la nichissitati". In breve tempo il Senato di Palermo procedette all'accorpamento dei piccoli ospedali esistenti, individuando per il nuovo nosocomio il trecentesco edificio, costruito nel 1330, dal conte Matteo Sclafani per scommessa col cognato Manfredi Chiaramonte, proprietario dello Steri di Piazza Marina. La sede di Palazzo Sclafani, stava opportunamente tra il Palazzo Reale e la Cattedrale, equidistante dal potere temporale e da quello spirituale.

L'edificio tuttavia, per quanto importante dal punto di vista architettonico e ornato di quadri e di stucchi, mostrava parecchie carenze: molti ambienti erano umidi e poco aerati, e la costruzione nell'insieme era sottodimensionata rispetto alle nuove esigenze: a quel tempo gli ospedali non si limitavano a curare gli ammalati, ma dovevano anche dare alloggio ai pellegrini, sfamare gli indigenti e assistere i moribondi. La vita interna del nosocomio era regolata da diciannove capitoli redatti dallo stesso frate Giuliano Majali ed emanati il 5 gennaio 1442. In virtù di queste norme ogni anno, il giorno di Pentecoste (dichiarato festa di lu Hospitali), l'Universitas di Palermo eleggeva tre rettori o priori con compiti di vigilanza e denuncia di ogni eventuale carenza amministrativa e assistenziale. Spettava invece al Senato eleggere il Tesoriere, l'Ospedaliere (una sorta di direttore generale che abitava a Palazzo Sclafani), due medici (uno fisico e uno chirurgo), il barbiere -salassatore- cavadenti, lo speziale (farmacista), l'archivista, il dispensiere, il procuratore degli introiti, l'avvocato, il sacerdote che fungeva anche da notaio (per accogliere eventuali lasciti testamentari a favore dell'ospedale) e la balia dei trovatelli abbandonati nell'apposita "ruota" del nosocomio. L'assistenza ai malati era assicurata dai componenti laici di varie confraternite religiose. Fra i loro compiti c'era anche quello di "aiutare a ben morire gli ammalati dell'ospedale". Non a caso nel nuovo nosocomio spiccava il quadro "Il Trionfo Della Morte" con il funereo cavallo che "tutto travolge".

All'epoca in cui venne redatta la nostra prescrizione, i ricoverati dell'Ospedale Grande e Nuovo erano aumentati a dismisura mentre il personale ausiliario era insufficiente. Per far fronte a questa carenza, nel 1654 si destinò un reparto del nosocomio, il cosiddetto Conservatorio, all'accoglimento delle trovatelle dai sette anni all'età di marito, al fine di utilizzarne l'opera, per accudire ai pazzi ed alle meretrici affette da "lue". Queste giovani che, tra l'altro, avevano il compito di preparare il pane e la pasta per tutti i degenti dell'ospedale erano costrette a vivere in condizioni igieniche tremende, ammassate in cameroni ricavati nei sottotetti in promiscuità con animali da cortile.. Altro personale ausiliario cominciò a essere reclutato, sempre nel Seicento, dalle file dei condannati a morte o a molti anni di galera, e soprattutto dalle parecchie magare e fattucchiere giudicate per stregoneria dal Sant'Uffizio e condannate a essere "muradas" a vita, o per alcuni anni, nei locali dell'Ospedale Grande e Nuovo.

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